Cass. Civ. n. 5487 del 2019 Le prove del medico e del paziente nei giudizi di responsabilità

Cass. Civ. n. 5487 del 2019 Le prove del medico e del paziente nei giudizi di responsabilità

ORDINANZA

sul ricorso 17441-2016 proposto da:

elettivamente domiciliati in ROMA, VIA presso lo studio dell’avvocato che li rappresenta e difende unitamente all’avvocato giusta procura a margine del ricorso;

– ricorrenti –

contro

AZIENDA UNITA LOCALE SOCIO SANITARIA , in persona del suo Direttore Generale pro tempore, elettivamente domiciliata in ROMA, VIA presso lo studio dell’avvocato rappresentata e difesa dall’avvocato

giusta procura in calce al controricorso;

– controricorrente –

avverso la sentenza n. 598/2016 della CORTE D’APPELLO di VENEZIA, depositata il 17/03/2016; udita la relazione della causa svolta nella camera di consiglio del 16/04/2018 dal Consigliere Dott. STEFANO GIAIME GUIZZI;

FATTI DI CAUSA

1. nonché ricorrono, sulla base di un unico motivo, per la cassazione della sentenza n. 598/16 del 17 marzo 2016, emessa dalla Cotte di Appello di Venezia, che – accogliendo il gravame esperito dall’Azienda Unità Locale Socio Sanitaria (d’ora in poi, AULSS n. 10), avverso la sentenza n. 134/13 del 5 aprile 2013 del Tribunale di Venezia – ha respinto l’azione risarcitoria proposta dagli odierni ricorrenti nei confronti della predetta AULSS n. 10, in ragione del decesso del loro congiunto.

2. Riferiscono, in punto di fatto, i ricorrenti che in data 24 maggio 2009, alle ore 18.30, il predetto decedeva a seguito di un malore occorsogli, pochi minuti prima, mentre era in auto con la moglie e la figlia. Deducono, altresì, che lo stesso, lamentando “dolore al fianco sinistro” anche da “digitocompressione dell’emicostato sinistro”, era stato appena visitato, alle 17.45 di quello stesso giorno, da un medico del Presidio della Guardia Medica (struttura alla quale si era rivolto, per la stessa ragione, già i precedenti 7 e 13 maggio, essendogli in entrambe tali occasioni somministrato, in via intramuscolare, un antidolorifico, con prescrizione di un controllo dal medico curante), essendo, anche in quel caso, “rinviato a domicilio”. Presentato atto di denuncia-querela contro ignoti, il susseguente procedimento penale sfociava in un provvedimento di archiviazione, che recepiva le conclusioni dal consulente nominato dalla Procura della Repubblica di Venezia nella propria relazione. Tale elaborato,

non senza previamente rilevare come l’invio del , il 24 maggio 2009, presso il Pronto Soccorso dell’Ospedale di (struttura ubicata nello stesso edificio del Presidio di Guardia Medica) “avrebbe quantomeno permesso di defibrillare il paziente e quindi di consentire al Sig. maggiori probabilità di sopravvivenza”, concludeva che “la grandezza statistica di tale probabilità, da un punto di vista penalistico, non assurge[va] però ai richiesti parametri della «ragionevole certezza»” dell’esito salvifico, potendo, nondimeno, “trovare ampia dignità in responsabilità civile, a fronte dell’assunto giuridico del cosiddetto «più probabile che non»”.

Su tali basi, pertanto, i predetti, (rispettivamente, moglie i figli del defunto) convenivano in giudizio civile – innanzi al Tribunale lagunare – la AULSS n. 10, affinché la stessa, riconosciuta responsabile del decesso del loro congiunto, per fatto del personale operante presso il suddetto Presidio di Guardia Medica, fosse condannata a risarcire i danni ad essi cagionati.

Accolta dal primo giudice la domanda risarcitoria (senza che si facesse luogo neppure a CTU), la Corte di Appello di Venezia – nel riformare tale decisione su gravame proposto dalla AULSS n. 10 – escludeva la responsabilità dell’appellata, mandandola indenne dalla domanda risarcitoria.

In particolare, il secondo giudice ha riformato la sentenza impugnata osservando che il Tribunale aveva attribuito rilevanza causale “al fatto della mancata presenza del presso il PS al momento dell’episodio, presumibilmente ischemico, che lo condusse al decesso e, quindi, al fatto del mancato utilizzo tempestivo del defibrillatore”, sicché l’omissione imputata ai sanitari del Presidio di Guardia Medica “non si è inserita nella serie causale che ha condotto all’evento di danno, ma si configura come una sorta di «occasione mancata», riferita al luogo di soccorso in collegamento con il mancato utilizzo del defibrillatore”, ovvero una circostanza “priva di efficacia causale o concausale”. Difatti, “non vi è riscontro probatorio circa la presenza di personale di PS pronto ad intervenire immediatamente con il defibrillatore e, soprattutto, non è dato sapere” (essendo “impossibile dirlo”, secondo la stessa valutazione fatta dal consulente del Pubblico Ministero in sede penale) se il suo utilizzo “sarebbe stato salvifico”, e ciò anche in ragione del fatto che “il decesso è stato quanto mai improvviso e repentino”. Su tali basi, dunque, la Corte veneziana ha rigettato la domanda risarcitoria, non senza rilevare come né il Tribunale, né prima di esso il già menzionato consulente, abbiano spiegato “in base a quali regole o dati scientifici si possa sostenere «le possibilità di sopravvivenza del certamente sussistevano»”, senza neppure esplicitare quale fosse tanto “la grandezza statistica delle asserite maggiori probabilità di sopravvivenza, quanto “i dati scientifici di supporto di detto assunto”.

3. Avverso tale decisione hanno proposto ricorso per cassazione la e i , sulla base di un unico motivo.

3.1. Esso – proposto ai sensi dell’art. 360, comma 1, n. 3), cod. proc. civ. – deduce “violazione o falsa applicazione di norme di diritto in relazione agli artt. 1218, 1176, comma 2, e 2697 cod. civ.”, oltre che “del principio della c.d. vicinanza dell’onere della prova in ambito di responsabilità civile del medico”.

Si censura la sentenza impugnata in quanto essa non si sarebbe curata di accertare se la diligenza dei sanitari della Guardia Medica fosse stata provata (come era suo onere) dalla convenuta, così realizzando una prima violazione del principio della vicinanza della prova, e ciò, oltretutto, avendo parte attrice evidenziato quali fossero i profili di negligenza imputati ad essi. Costoro, infatti, si limitarono chi a consigliare un controllo del medico curante (eventualmente anche per un’impegnativa di elettrocardiogramma), chi invece a somministrare una terapia con antinfiammatori non steroidei, senza disporre essi stessi l’elettrocardiogramma, o un rilievo per la Tropomina 1, oppure l’emo-gasanalisi, mostrando così di reputare “non grave né urgente la situazione clinica del paziente”.

Inoltre, mentre parte attrice, dopo aver provato il “contatto sociale” tra il paziente e la struttura, avrebbe anche evidenziato che la prescrizione – da parte di uno dei sanitari che ebbero in cura il paziente – di accertamenti più approfonditi, al fine di scongiurare la presenza di una patologia cardiaca, avrebbe evitato la morte del per attacco ischemico, la convenuta non ha fornito la prova che all’esito della loro esecuzione “nulla sarebbe stato riscontrato sotto il profilo cardiologico”. Orbene, l’avere la Corte lagunare ignorato tale circostanza integrerebbe “una violazione dei principi vigenti in materia di onere della prova del nesso causale, dettati dagli artt. 1218 e 2697 cod. civ.” con specifico riferimento alla responsabilità sanitaria.

D’altra parte, la sentenza sarebbe errata anche laddove afferma – in assenza di riscontri in tal senso – che i sanitari si sarebbero addirittura comportati con diligenza, giacché senza le risultanze degli esami che furono, invece, omessi “non può in alcun modo essere provato che i sintomi di un’ischemia non vi fossero”, sicché la sentenza impugnata avrebbe violato pure sotto questo profilo gli artt. 1176, comma 2, e 2697 cod. civ. 

In conclusione, poiché la morte del fu causata da un problema cardiaco e poiché gli odierni ricorrenti “hanno sempre affermato che l’esecuzione degli esami omessi avrebbe consentito una diagnosi tempestiva e permesso di monitorare la situazione, evitando la morte per ischemia”, sarebbe spettato alla convenuta “provare che la morte sarebbe egualmente avvenuta oppure che la sua causa andava rinvenuta in altro evento imprevisto e/o imprevedibile”. E ciò, a maggior ragione, a fronte delle risultanze di una consulenza secondo cui gli accertamenti diagnostici omessi e l’utilizzo del defibrillatore il giorno della morte avrebbero consentito la sopravvivenza del paziente, secondo la regola “del più probabile che non”. Di qui, dunque, anche una violazione del principi della vicinanza della prova che, se correttamente applicato, imponeva alla convenuta – a fronte delle risultanze della perizia medico-legale – di fornire gli elementi necessari per ritenere che la causa della morte del paziente andasse ricercata in un evento impossibile da prevedere.

Si contesta, infine, l’affermazione della Corte veneziana secondo cui “non vi è riscontro probatorio circa la presenza di personale di PS pronto ad intervenire immediatamente con il defibrillatore e, soprattutto, non è dato sapere” se il suo utilizzo “sarebbe stato salvifico”, atteso che l’incertezza sulla sussistenza del nesso causale grava sul presunto danneggiante (struttura/medico) e non sul paziente.

4. È intervenuta in giudizio la AULSS n. 10 per resistere – con controricorso – all’avversaria impugnazione, chiedendone la declaratoria di inammissibilità (anche in relazione alla sovrapposizione, all’interno dello stesso motivo, di censure tra loro eterogenee) o il rigetto. Si sottolinea, in particolare, che, con riferimento all’elemento soggettivo della fattispecie di responsabilità per attività sanitaria, la Corte di Appello di Venezia avrebbe fatto corretta applicazione proprio del criterio invocato dai ricorrenti. Con riferimento, poi, alla prova del nesso causale, la sentenza impugnata avrebbe, del pari, applicato correttamente il principio enunciato da questa Corte, che pone il relativo onere probatorio a carico dell’attore che richieda il risarcimento del danno.

5. Hanno presentato memoria entrambe le parti, insistendo nelle rispettive argomentazioni, nonché dando atto la controricorrente del mutamento della propria denominazione Azienda ULSS .

RAGIONI DELLA DECISIONE

6. In via preliminare va disattesa l’eccezione di inammissibilità del ricorso, formulata dalla controricorrente sul rilievo di un’indebita sovrapposizione – nell’ambito dell’unico motivo articolato dai congiunti del – di censure tra loro eterogenee.

6.1. Invero, “il fatto che un singolo motivo sia articolato in più profili di doglianza, ciascuno dei quali avrebbe potuto essere prospettato come un autonomo motivo, non costituisce, di per sé, ragione d’inammissibilità dell’impugnazione, dovendosi ritenere sufficiente, ai fini dell’ammissibilità del ricorso, che la sua formulazione permetta di cogliere con chiarezza le doglianze prospettate onde consentirne, se necessario, l’esame separato esattamente negli stessi termini in cui lo si sarebbe potuto fare se esse fossero state articolate in motivi diversi, singolarmente numerati” (così Cass. Sez. Un., sent. 6 maggio 2015, n. 9100, Rv. 635452-01; in senso sostanzialmente analogo, sebbene “a contrario”, si veda anche Cass. Sez. 3, ord. 17 marzo 2017, n. 7009, Rv. 643681-01).

6.2. Nel caso di specie, i ricorrenti si dolgono di un’errata applicazione – con riferimento alla fattispecie della responsabilità per attività sanitaria – dei principi relativi alla distribuzione dell’onere della prova, con riguardo sia al nesso causale tra la condotta della struttura sanitaria (e, per essa, dei medici operanti presso di essa) e l’evento dannoso, sia alla imputabilità dell’inadempimento in cui la stessa sia eventualmente incorsa. 

7. Ciò premesso, il ricorso va accolto, sebbene nei termini e limiti di seguito precisati.

7.1. “In limine”, tuttavia, occorre rammentare quali siano i principi – reiteratamente – affermati da questa Corte in tema di responsabilità per attività medico-chirurgica. In particolare, si è sancito che, nei giudizi risarcitori da responsabilità sanitaria, si delinea “un duplice ciclo causale, l’uno relativo all’evento dannoso, a monte, l’altro relativo all’impossibilità di adempiere, a valle. Il primo, quello relativo all’evento dannoso, deve essere provato dal creditore/danneggiato, il secondo, relativo alla possibilità di adempiere, deve essere provato dal debitore/danneggiante. Mentre il creditore deve provare il nesso di causalità fra l’insorgenza (o l’aggravamento) della patologia e la condotta del sanitario (fatto costitutivo del diritto), il debitore deve provare che una causa imprevedibile ed inevitabile ha reso impossibile la prestazione (fatto estintivo del diritto)” (così, in motivazione, tra le altre, Cass. Sez. 3, sent. 26 luglio 2017, n. 18392, Rv. 645164-01).

Ne consegue, dunque, che “la causa incognita resta a carico dell’attore relativamente all’evento dannoso, resta a carico del convenuto relativamente alla possibilità di adempiere. Se, al termine dell’istruttoria, resti incerti la causa del danno o dell’impossibilità di adempiere, le conseguenze sfavorevoli in termini di onere della prova gravano rispettivamente sull’attore o sul convenuto. Il ciclo causale relativo alla possibilità di adempiere acquista rilievo solo ove risulti dimostrato il nesso causale fra evento dannoso e condotta del debitore. Solo una volta che il danneggiato abbia dimostrato che l’aggravamento della situazione patologica (o l’insorgenza di nuove patologie per effetto dell’intervento) è causalmente riconducibile alla  condotta dei sanitari sorge per la struttura sanitaria l’onere di provare che l’inadempimento, fonte del pregiudizio lamentato dall’attore, è stato determinato da causa non imputabile” (così, nuovamente, Cass. Sez. 3, sent. n. 18392 del 2017, cit.; nello stesso senso anche Cass. Sez. 3, sent. 4 novembre 2017, n. 26824, non massimata; Cass. Sez. 3, sent. 7 dicembre 2017, n. 29315, Rv. 646653-01; Cass. Sez. 3, sent. 15 febbraio 2018, n. 3704, Rv. 647948-01; Cass. Sez. 3, ord., 23 ottobre 2018, n. 26700, Rv. 651166 – 01).

6.2. Nel caso di specie, dunque, occorreva dimostrare – da parte degli eredi del paziente deceduto – che l’omissione addebitata ai sanitari sia stata “più probabilmente che non” la causa del decesso, ovvero, che l’intervento omesso (da intendersi, come meglio si dirà più avanti, non nella sola sottoposizione del paziente alla defibrillazione quel fatale giorno del 24 maggio 2009) avrebbe “più probabilmente che non” scongiurato l’evento letale. Sotto questo profilo, dunque, non coglie nel segno la censura dei ricorrenti secondo cui, nei giudizi per “malptractice” sanitaria, l’incertezza sulla sussistenza del nesso causale tra evento dannoso e condotta dei sanitari grava sul presunto danneggiante (struttura/medico) e non sul paziente. Nondimeno, la sentenza impugnata è egualmente incorsa in una falsa applicazione delle norme in tema di accertamento del nesso causale, avendo operato – erratamente – una “segmentazione” della complessiva condotta omissiva della struttura sanitaria, indicata dagli attori come potenzialmente idonea a cagionare il decesso del .

La Corte lagunare ha, infatti, incentrato la propria valutazione esclusivamente sull’ultimo episodio – quello del 24 maggio 2009 – in cui l’uomo ebbe a rivolgersi ai medici del Presidio della Guardia Medica , limitando la propria indagine alla verifica se, prontamente inviato lo stesso presso il Pronto Soccorso, sarebbe stato possibile sottoporlo ad un intervento “salvifico”, mediante defibrillazione. Quello su cui si è focalizzata l’attenzione del giudice di appello non è, però, che un singolo episodio, inserito in una sequenza più ampia, considerato che il , già il 7 ed il 13 maggio 2009, ebbe a rivolgersi ai sanitari di quella stessa struttura, per lamentare, anche in quei casi, “dolore al fianco sinistro” anche da “digitocompressione dell’emicostato sinistro”. In entrambe tali occasioni, tuttavia, il solo intervento praticato consistette nella somministrazione, in via intramuscolare, di un antidolorifico, con prescrizione di un controllo dal medico curante, senza che si fosse reputato necessario disporre ulteriori accertamenti di natura cardiologica. Errato è, dunque, considerare – come ha fatto la decisione impugnata – la mancata presenza del presso la struttura di Pronto Soccorso come una mera “occasione mancata”, per giunta affermando che essa “non si è inserita nella serie causale che ha condotto all’evento di danno”.

Quello indicato è stato, infatti, solo l’ultimo anello di una catena di omissioni che andavano tutte adeguatamente indagate, specie di fronte delle risultanze della consulenza tecnica disposta in sede penale, ritenuta, peraltro, sufficiente dal primo giudice per l’accoglimento della domanda risarcitoria. Nella stessa, infatti, il tecnico d’ufficio, pur escludendo – ma sulla scorta del criterio penalistico di ricostruzione del nesso causale, ovvero quello che impone il suo accertamento “oltre ogni ragionevole dubbio” – che fossero ipotizzabili, con riferimento alla morte del , profili di responsabilità per il delitto ex art. 589 cod. pen., riteneva che le risultanze dell’indagine tecnica espletata potessero “trovare ampia dignità in responsabilità civile, a fronte dell’assunto giuridico del cosiddetto «più probabile che non»”. E se tale conclusione era stata formulata con riferimento al solo (e terminale) episodio del 24 maggio 2009, la sua attendibilità risultava, vieppiù, ipotizzabile alla luce di una ricostruzione non “atomistica” dell’intera vicenda, accreditando l’idea che la tempestiva sottoposizione del ad accertamenti più approfonditi – già nella fase iniziale, o comunque in quella intermedia, dell’intera catena di accadimenti – avrebbe potuto scongiurarne il decesso.

6.3. La Corte di Appello di Venezia, pertanto, di fronte a simili risultanze non ha fatto, come detto, corretta applicazione delle norme in tema in tema di accertamento del nesso causale tra condotta ed evento. Essa ha operato un’indebita “parcellizzazione” dei singoli episodi in cui si articolava l’unitario contegno omissivo addebitato alla struttura sanitaria, ignorando del tutto i due che hanno preceduto quello del 24 maggio 2009, sul quale ha concentrato la propria attenzione, disattendo, per giunta, le risultanze di un elaborato (quello predisposto in sede penale) che offriva elementi idonei a riscontrare positivamente l’ipotesi della sussistenza del nesso causale, senza fare neppure ricorso ad un’ulteriore indagine tecnica che potesse affiancare, integrandola, la prima. Al riguardo, non sembra inutile rammentare che in materia di responsabilità sanitaria, “la consulenza tecnica è di norma «consulenza percipiente» a causa delle conoscenze tecniche specialistiche necessarie, non solo per la comprensione dei fatti, ma per la rilevabilità stessa dei fatti, i quali, anche solo per essere individuati, necessitano di specifiche cognizioni e/o strumentazioni tecniche; atteso che, proprio gli accertamenti in sede di consulenza offrono al giudice il quadro dei fattori causali entro il quale far operare la regola probatoria della certezza probabilistica per la ricostruzione del nesso causale” (così, in motivazione, Cass. Sez. 3, sent. 20 ottobre 2014, n. 22225). Invero, in presenza di una situazione in cui risultava quantomeno un principio di prova, offerto dagli attori, in ordine alla ricorrenza del nesso causale tra condotta dei sanitari (e, per essi, della struttura convenuta) e l’evento dannoso, il ricorso ad un simile accertamento tecnico si palesava come necessario, e ciò sulla scorta del principio secondo cui, “in tema di risarcimento del danno, è possibile assegnare alla consulenza tecnica d’ufficio ed alle correlate indagini peritali funzione «percipiente»”, purché a condizione che “essa veda su elementi già allegati dalla parte, ma che soltanto un tecnico sia in grado di accertare, per mezzo delle conoscenze e degli strumenti di cui dispone” (Cass. Sez. 2, sent. 22 gennaio 2015, n. 1190, Rv. 633974-01), giacché, anche quando la consulenza “può costituire essa stessa fonte oggettiva di prova”, resta pur sempre “necessario che le parti stesse deducano quantomeno i fatti e gli elementi specifici posti a fondamento di tali diritti” (Cass. Sez. 3, sent. 26 novembre 2007, n. 24620, Rv. 600467-01).

6.4. Il ricorso, in conclusione, va accolto, e va cassata la sentenza impugnata, rinviando a diversa sezione della Corte di Appello di Venezia, affinché decida la causa nel merito, attenendosi ai principi sopra meglio identificati. Il giudice del rinvio provvederà, inoltre, ad una rinnovata regolamentazione delle spese di lite, comprese quelle relative al presente giudizio.

PQM

La Corte accoglie il ricorso, e, per l’effetto, cassa la sentenza impugnata, rinviando alla Corte di Appello di Venezia in diversa composizione per la decisione nel merito, oltre che per la liquidazione delle spese anche del presente giudizio. Così deciso in Roma, all’esito di adunanza camerale della Sezione